Il D. Lgs 81/08, detto anche Testo Unico sulla Sicurezza, contiene tutta una serie di disposizioni volte a salvaguardare la salute dei lavoratori all’interno dei diversi contesti aziendali. Uno degli aspetti toccati dal testo di legge è quello della formazione: i lavoratori, così come le varie figure preposte alla sorveglianza sanitaria, devono periodicamente seguire corsi in seguito ai quali verrà rilasciato un attestato di sicurezza sul lavoro.
In questo articolo osserveremo le modalità attraverso le quali si otterrà soffermandoci anche sulla sua validità, le tempistiche di rinnovo e molti altri dettagli.
L’attestato di sicurezza sul lavoro serve a certificare il completamento da parte del lavoratore di un percorso formativo specifico per il contesto ed il settore in cui si trova ad operare. La formazione serve a fornire tutte quelle competenze necessarie per affrontare i rischi presenti nell’ambiente di lavoro.
L’ottenimento dell’attestato del corso di formazione non è solo una formalità, ma rappresenta un tassello fondamentale nelle pratiche di prevenzione degli incidenti e delle malattie professionali.
Il corso fornisce al lavoratore una conoscenza completa su aspetti come l’utilizzo corretto dei dispositivi di protezione individuale (DPI), la gestione delle emergenze, l’evacuazione e la prevenzione degli infortuni.
Al tempo stesso l’attestato di sicurezza sul lavoro è di vitale importanza anche per l’azienda stessa: è la “patente” che dimostra agli enti di controllo preposti, come l’ASL o l’Ispettorato del Lavoro, che il datore di lavoro ha rispettato gli obblighi formativi imposti dal Testo Unico sulla Sicurezza.
Per ottenere l’attestato di sicurezza sul lavoro, il lavoratore deve obbligatoriamente partecipare a un corso di formazione erogato da un ente accreditato. Le materie e la durata delle lezioni variano a seconda della mansione del lavoratore e del livello di rischio associato all’ambiente in cui svolge la propria attività, il quale può essere basso, medio o alto.
L’articolo 37 del D.Lgs. 81/08 stabilisce con precisione i criteri minimi di durata e contenuti dei corsi di sicurezza. Questi ultimi possono essere erogati in due modalità:
Ai fini del conseguimento dell’attestato di sicurezza sul lavoro è necessario soddisfare due requisiti principali:
Una volta soddisfatti i requisiti appena elencati, l’ente formatore rilascerà l’attestato di sicurezza sul lavoro.
La normativa prevede che le competenze acquisite durante la formazione iniziale debbano essere periodicamente aggiornate attraverso appositi corsi di aggiornamento. Proviamo allora a vedere nello specifico la durata della validità dell’attestato di sicurezza sul lavoro per le varie figure professionali individuabili all’interno dell’azienda:
La mancata partecipazione ai corsi di formazione obbligatoria sulla sicurezza sul lavoro può condurre a conseguenze molto serie, sia per i lavoratori, sia per i datori di lavoro.
Un lavoratore non formato correttamente è maggiormente esposto a incidenti sul lavoro e a malattie professionali. Inoltre, la mancata conoscenza delle norme di sicurezza vigenti determina l’adozione di comportamenti inappropriati durante l’attività lavorativa, in grado di influire negativamente sull’incolumità dei propri colleghi.
Dall’altro lato, un’azienda che non provvede alla formazione in materia di sicurezza dei propri dipendenti va ad incontro a sanzioni amministrative, che potrebbero essere particolarmente esose dal punto di vista economico.
I costi diventano ancora più alti quando l’inosservanza della normativa si traduce in un maggior numero di infortuni sul lavoro, i quali comportano spesso risarcimenti importanti ed obbligano il datore di lavoro a reperire nuovo personale al fine di sostituire il lavoratore infortunato durante il suo periodo di assenza.
A tutto ciò si aggiunge il danno d’immagine determinato dall’inottemperanza delle norme. Clienti, fornitori e collaboratori possono perdere la fiducia nei confronti dell’azienda e far venire meno i servizi e le prestazioni offerte.
Può capitare che il lavoratore o il datore di lavoro perdano l’attestato di sicurezza sul lavoro rilasciato. Com’è possibile recuperarlo?
La prima azione da intraprendere è contattare il centro formativo presso cui è stato seguito il corso. Solitamente, gli enti accreditati mantengono una copia digitale dei documenti dei corsisti.
Un’alternativa è invece rivolgersi agli enti territoriali competenti, come l’ASL, i quali a volte sono dotati di un archivio degli attestati rilasciati. Nel peggiore dei casi, è possibile inviare una domanda formale al Ministero del Lavoro allegando una denuncia di smarrimento dell’attestato del corso di formazione.
La consueta routine quotidiana sul posto di lavoro può portare a lungo andare al “disinnamoramento” delle proprie mansioni. Prima di arrivare alla scelta drastica del “cambio lavoro” è possibile intraprendere una soluzione alternativa: il Job Crafting.
Di che cosa si tratta? Lo potremmo definire come un approccio proattivo alle varie operazioni che caratterizzano la giornata lavorativa. Nelle prossime righe andremo ad osservare da vicino come funziona e soprattutto ci soffermeremo su come le strategie di Job Crafting possano contribuire al miglioramento del benessere aziendale.
Come accennato in apertura di questo articolo, le attività più ripetitive e standardizzate, possono condurre ad una riduzione della motivazione e della soddisfazione personale. Col passare del tempo, i dipendenti possono avvertire una crescente demotivazione, in grado non solo di impattare sul loro benessere psicofisico, ma di riflettersi anche in un calo delle performance lavorative.
A tutto ciò si aggiunge la possibilità del manifestarsi anche di malattie professionali, come ad esempio quelle derivanti dallo stress da lavoro correlato. Se dovessimo fornire una definizione di Job Crafting lo potremmo indicare come una strategia alternativa al licenziamento, capace di permettere ai lavoratori di recuperare il piacere e la gratificazione nel proprio impiego.
A teorizzare le sue potenzialità furono per la prima volta la psicologa americana Amy Wrzesniewski e la docente di Economia Jane Dutton nel 2001. La loro teoria si basa sull’idea che i lavoratori possano ridisegnare attivamente il proprio ruolo professionale per renderlo più aderente alle proprie abilità, preferenze e passioni.
È importante non confondere il Job Crafting con il Job Design. Quest’ultimo rappresenta un approccio top-down in cui è l’organizzazione a ristrutturare le mansioni. Al contrario, il Job Crafting invita i dipendenti a modificare autonomamente il proprio lavoro attraverso piccole, ma significative azioni che non richiedono approvazioni formali da parte dei datori di lavoro. Così facendo, i lavoratori si trasformano da meri esecutori di compiti a protagonisti attivi del proprio lavoro.
Il Job Crafting si articola in tre diverse modalità, che vengono definite “dimensioni”: Task Crafting, Relationship Crafting e Cognitive Crafting. Ognuna di queste agisce su un aspetto specifico del lavoro.
Con il termine Task Crafting si intende la modifica della tipologia, della quantità e dell’ordine delle mansioni svolte quotidianamente. Questa dimensione si focalizza sulla possibilità di personalizzare le attività lavorative per renderle più in linea con i propri interessi, capacità e valori. I lavoratori possono scegliere di dedicare più tempo ai compiti che ritengono più stimolanti e gratificanti, o aggiungere nuove responsabilità utili a sviluppare ulteriori competenze.
Ad esempio, un contabile potrebbe decidere di dedicare meno tempo alla registrazione delle transazioni ordinarie per concentrarsi su progetti di analisi finanziaria, capaci di appassionarlo maggiormente. Un insegnante, invece, potrebbe introdurre nuove metodologie didattiche, come l’uso di strumenti tecnologici, per rendere le lezioni più coinvolgenti e innovative, migliorando così l’esperienza di apprendimento degli studenti.
Il Relationship Crafting è incentrato sulle relazioni professionali all’interno del contesto lavorativo. Le interazioni con i colleghi, i superiori e persino i clienti possono avere un impatto significativo sulla soddisfazione e sulla qualità della vita lavorativa. Il miglioramento delle dinamiche lavorative è utile alla costruzione di nuove connessioni e al rafforzamento di quelle esistenti, così come alla creazione di un ambiente di lavoro più positivo e collaborativo.
Ad esempio, un infermiere che lavora in un reparto specifico potrebbe decidere di costruire una rete di relazioni con colleghi di altri reparti, condividendo conoscenze e competenze per migliorare il servizio ai pazienti. Oppure, un project manager potrebbe incentivare incontri periodici con i membri del proprio team per discutere nuove idee e promuovere un maggiore dialogo.
La terza dimensione del Job Crafting, ovvero il Cognitive Crafting agisce sulla riformulazione del modo in cui i lavoratori percepiscono il proprio ruolo. Molto spesso un lavoratore non ha l’opportunità di cambiare le proprie mansioni. Tuttavia, può provare ad osservare le proprie attività da un’altra prospettiva. In altre parole, i dipendenti possono trasformare compiti che considerano ripetitivi o poco significativi in attività più gratificanti semplicemente modificando il modo in cui li interpretano.
Un esempio di Cognitive Crafting potrebbe essere un operatore ecologico che, anziché vedere il proprio lavoro come un compito puramente meccanico di rimozione rifiuti, si concentra sul contributo che dona quotidianamente alla comunità, rendendo la città più pulita e vivibile.
Il Job Crafting ha effetti profondamente positivi sia sul lavoratore che sull’organizzazione. A livello individuale, questa pratica permette di aumentare la motivazione, ridurre lo stress e migliorare il benessere psicofisico. I dipendenti che praticano il Job Crafting si sentono più coinvolti e soddisfatti, e soprattutto sviluppano una maggiore resilienza riuscendo a contenere l’insorgere di situazioni di burnout.
Il benessere del singolo si riflette ovviamente anche sull’organizzazione nel suo complesso. Un dipendente gratificato tende ad essere più produttivo e proattivo sposando appieno la mission aziendale e contribuendo a perseguire gli obbiettivi aziendali.
Il Job Crafting porta alla formazione di un ambiente di lavoro coeso che si traduce anche in una maggiore retention dei talenti, con una riduzione del turnover e dei costi legati alla formazione di nuovi dipendenti.
Il Job Crafting può essere definito come una strategia di soft empowerment. Infatti, il benessere aziendale si ottiene senza particolari stravolgimenti né delle mansioni dei lavoratori, né della struttura aziendale. In sostanza, offre l’opportunità ad ogni dipendente di diventare l’architetto del proprio lavoro.
La sicurezza sui luoghi di lavoro passa anche da una puntuale e precisa redazione del piano di emergenza aziendale (PE). La sua elaborazione non è solo un obbligo previsto dalla legge in determinate circostanze, ma rappresenta un vero e proprio atto di responsabilità per salvaguardare sia la salute dei lavoratori, sia i beni aziendali.
Quindi, quali caratteristiche deve avere un piano di emergenza ed evacuazione? Nelle prossime righe osserveremo tutte le componenti di questo importante documento e ci soffermeremo sulle varie fattispecie in cui è previsto dalla legge.
Proviamo innanzitutto a fornire una definizione di piano di emergenza aziendale (PE). Si tratta di un documento obbligatorio previsto dal D. Lgs 81/08, detto anche Testo Unico sulla Sicurezza. Al suo interno sono contenute le misure operative e comportamentali da adottare in caso di emergenze sul luogo di lavoro.
La finalità dei vari piani di emergenza è proteggere la vita dei lavoratori, prevenire danni a strutture e impianti, e coordinare le operazioni di evacuazione in modo ordinato e sicuro. Viene redatto per far fronte a situazioni di pericolo grave e immediato, come incendi, esplosioni, crolli, fughe di gas, allagamenti o calamità naturali.
Dal punto di vista organizzativo il piano di emergenza è un’integrazione del Documento di Valutazione dei Rischi (DVR). Se da un lato il DVR identifica i rischi presenti sul luogo di lavoro, dall’altro il PE entra in gioco nel momento in cui tali rischi si concretizzano, definendo le azioni da intraprendere per ridurre al minimo le conseguenze negative.
L’articolo 43 del D. Lgs 81/08 definisce con precisione gli ambienti di lavoro per i quali la redazione di un piano di emergenza ed evacuazione risulta obbligatorio. Le fattispecie previste sono:
Tra quest’ultime rientrano ad esempio quelle attività che trattano materiali esplosivi o altamente infiammabili.
Inoltre, è importante sottolineare che anche nei casi in cui non vige l’obbligo formale di redigere un piano di emergenza, il datore di lavoro è comunque tenuto a indicare nel DVR le misure organizzative e gestionali da attuare in caso di pericolo.
Un piano di emergenza aziendale viene redatto quando nei luoghi di lavoro potrebbero verificarsi particolari tipi di emergenze, come:
A differenza del piano antincendio, che, come facilmente intuibile, si concentra esclusivamente sul rischio di incendi, il piano di emergenza copre tutte le eventualità che potrebbero compromettere la sicurezza. Potremmo in pratica determinare il piano antincendio come uno dei tanti aspetti presi in considerazione dal PE.
La redazione del piano di emergenza è una responsabilità del datore di lavoro, il quale lo elabora con il supporto del Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione (RSPP) e degli addetti al primo soccorso e alla prevenzione incendi.
Questi ultimi sono fondamentali al verificarsi dell’emergenza. Infatti, sono figure formate al fine di mantenere la calma nelle situazioni di pericolo e di sovrintendere le operazioni di evacuazione.
Ogni piano viene studiato in base alle caratteristiche specifiche dell’azienda: vengono prese in considerazione le attività svolte, la configurazione degli spazi, il numero di lavoratori e l’eventuale presenza di personale esterno.
I diversi piani di emergenza servono anche ad individuare precisamente ruoli e responsabilità, in maniera tale che chiunque sappia cosa fare e a chi fare riferimento in caso di emergenza.
I piani di emergenza sono suddivisi in più sezioni che trattano le modalità di gestione dei pericoli e le procedure di evacuazione. Osserviamo da vicino i contenuti principali del documento:
Tra i contenuti del piano di emergenza vanno annoverate anche le planimetrie, le quali devono essere affisse in punti strategici all’interno dell’azienda, dove possano essere consultate facilmente dal personale presente.
Nello specifico la planimetria del piano di emergenza ed evacuazione deve riportare:
Il piano di emergenza aziendale deve essere sottoposto ad una revisione ogni qualvolta vengano effettuate modifiche alle strutture, ai processi produttivi o al numero di lavoratori, in quanto tutti questi aspetti potrebbero influire sul livello di rischio aziendale.
Inoltre, è importante ricordare che in tutti gli ambienti di lavoro soggetti per legge alla redazione del piano di emergenza è obbligatorio eseguire almeno una volta all’anno una prova di evacuazione.
L’andamento della prova va verbalizzato ed i risultati vanno attentamente analizzati per individuare possibili criticità e nel caso migliorare le procedur
Un livello di sicurezza ottimale sul posto di lavoro dipende dalla presenza contemporanea di tanti fattori. Tra questi vanno ovviamente considerati anche i dispositivi di protezione individuale (DPI). Quali caratteristiche devono rispecchiare?
Nelle prossime righe osserveremo da vicino come il Testo Unico sulla Sicurezza norma questi dispositivi tanto utili quanto essenziali per garantire i corretti standard di protezione in qualunque contesto lavorativo. Inoltre, ci soffermeremo anche sugli obblighi in materia per il datore di lavoro ed i dipendenti stessi.
Proviamo a fornire una definizione di dispositivi di protezione individuale (DPI). Il D. Lgs 81/08 li descrive così: “… qualsiasi attrezzatura destinata ad essere indossata e tenuta dal lavoratore allo scopo di proteggerlo contro uno o più rischi suscettibili di minacciarne la sicurezza o la salute durante il lavoro, nonché ogni complemento o accessorio destinato a tale scopo“.
I DPI, quindi, non sono semplici indumenti da lavoro o attrezzature di ordinario utilizzo, ma veri e propri dispositivi di protezione da adottare laddove siano presenti rischi tangibili per l’integrità dei lavoratori, come la possibilità di incidenti o di esposizioni a sostanze nocive.
Come già accennato, il quadro normativo che regola l’uso e la gestione dei DPI è disciplinato dal Decreto Legislativo 81/08. Nel testo di legge si individuano chiaramente le responsabilità dei datori di lavoro, così come si evidenziano gli obblighi dei lavoratori per quanto riguarda l’utilizzo corretto dei dispositivi presenti in azienda.
Il datore di lavoro è responsabile della valutazione dei rischi e della scelta dei DPI adeguati alle attività lavorative specifiche. Deve fornire dispositivi conformi ai requisiti di sicurezza e garantire che siano sempre disponibili per i lavoratori. Inoltre, è tenuto a mantenerli in condizioni ottimali: i dispositivi di protezione individuale devono essere regolarmente sottoposti a controlli e manutenzione.
Un altro aspetto importante è quello relativo alla formazione. Il datore di lavoro deve istruire i lavoratori sul corretto uso dei DPI, in particolare per quelli di terza categoria, che richiedono competenze specifiche per adoperarli.
I lavoratori invece hanno l’obbligo di prendersi cura dei dispositivi, evitando di apportare modifiche o usarli in modo improprio. Infine, è loro compito segnalare al datore di lavoro eventuali difetti o malfunzionamenti, affinché possano essere riparati o sostituiti.
La classificazione dei DPI è ancora una volta stabilita dal D. Lgs. 81/08: sono suddivisi in tre categorie a seconda della complessità del dispositivo e del rischio da fronteggiare.
I DPI di prima categoria sono dispositivi semplici applicati in quei contesti lavorativi in cui i rischi sono considerati minimi e di conseguenza i possibili danni fisici sono solitamente di lieve entità e reversibili.
Nello specifico assicurano una protezione efficace da:
I dispositivi di prima categoria, così come quelli di seconda e di terza, devono riportare la marcatura CE: garantisce che i DPI siano stati sottoposti a test utili a dimostrare la loro conformità agli standard di sicurezza europei.
La marcatura deve essere ben visibile, leggibile e indelebile, e, in alcuni casi, può essere apposta anche sull’imballaggio o sulla documentazione allegata.
Tuttavia, a differenza di quelli di prima categoria, i DPI di seconda e terza categoria devono essere certificati da un organismo notificato con il compito di verificare la loro idoneità e conformità alle normative europee.
I DPI di seconda categoria coprono una vasta gamma di dispositivi che non rientrano né nella prima né nella terza categoria. Essi sono utilizzati per proteggere i lavoratori da rischi significativi, che potrebbero comportare danni potenzialmente invalidanti.
Alcuni esempi della categoria sono:
I DPI di terza categoria sono progettati per proteggere i lavoratori da rischi gravi, che possono comportare lesioni permanenti o addirittura la morte. La categoria include attrezzature destinate a prevenire rischi come cadute dall’alto, esposizione a sostanze chimiche pericolose o agenti biologici, così come a salvaguardare da eventuali scosse elettriche.
Alcuni esempi di questi dispositivi sono:
Tuttavia, i dispositivi di protezione individuale, per quanto imprescindibili, devono essere considerati una misura complementare alle altre strategie di prevenzione. Per mantenere i livelli di sicurezza efficaci all’interno dei contesti aziendali è doveroso applicare correttamente le norme, ma al tempo stesso è fondamentale la collaborazione tra dipendenti, datore di lavoro e tutte le altre figure preposte alla sorveglianza sanitaria.